Roland Barthes, Frammenti di un di discorso amoroso, trad. it. di Renzo Guidieri,
Torino 1979
IL DISCORSO AMOROSO SI AUTOAFFERMA
“Il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine. Questo
discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è
sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai
discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato
fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti,
sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in
questo modo alla deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà,
non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione”. (3)
QUANDO L’AMATO SI PERDE NEL CONFORMISMO
“La
brutta immagine non è un’immagine cattiva; è un’immagine ‘meschina’: essa mi fa
vedere l’altro preso nel conformismo del mondo sociale. (O anche: l’altro si
altera se si conforma alle banalità che il mondo professa per svilire l’amore: l’altro
diventa gregario).” (24)
L’AMORE E’
GIA’ PERDUTO DALL’INIZIO
“L’angoscia d’amore […] è la paura di una
perdita che è già avvenuta, sin dall’inizio dell’amore, sin dal momento in cui
sono stato stregato. Bisognerebbe che qualcuno potesse dirmi: ‘Non essere più
angosciato, tu l’hai già perduto(a)” (27).
FARE
ASPETTARE
“Fare
aspettare: prerogativa costante di qualsiasi potere, <<passatempo
millenario dell’umanità>> (42)
ELUDERE IL
POTERE
“Un mandarino era innamorato di una
cortigiana. <<Sarò vostra, – disse lei, – solo quando voi avrete passato
cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la
mia finestra>>. Ma, alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò,
prese il suo sgabello sotto il braccio e
se n’andò” (42).
ESSERE
PERDUTI PER SEMPRE
“Io mi sono talmente trasfuso nell’altro che,
quando esso mi viene a mancare, non riesco più a riprendermi, a ricuperarmi:
sono perduto per sempre” (46).
FARSI DEL
MALE
“Una forza precisa trascina il mio
linguaggio verso il male che io posso fare a me stesso: il regime del mio
linguaggio è la ruota libera: il linguaggio si morula, senza nessuna idea
tattica della realtà. Io cerco di farmi del male, mi espello da solo dal mio
paradiso, affannandomi di suscitare in me stesso le immagini (di gelosia, di
abbandono, di umiliazione) che possono ferirmi; e quando la ferita è aperta,
cerco di mantenerla tale, la alimento con altre immagini, fino a che un’altra
ferita non venga a distogliermi da quella” (70).
L’ESUBERANZA
– LA BELLEZZA
“Quando il Dispendio amoroso viene
continuamente riaffermato, senza freno, senza soluzione di continuità, si
verifica quella cosa splendida e rara che si chiama l’esuberanza e che è eguale
alla Bellezza: ‘L’esuberanza è la Bellezza. La cisterna contiene, la fonte
trabocca’ (Blake). L’esuberanza amorosa è l’esuberanza del fanciullo a cui
niente (ancora) viene a contenere l’ostentazione narcisistica. Considerato che
il discorso amoroso non è una media
di stati d’animo, questa esuberanza può essere rotta a intervalli da tristezze,
avvilimenti, impulsi suicidi; ma un tale squilibrio fa parte di quest’economia
nera che mi marchia con la sua aberrazione, e per così dire con il suo lusso
sfrenato” (84)
IL LUTTO
AMOROSO
“Nel lutto amoroso, l’oggetto non è né morto
né lontano. Sono io a decidere che la sua immagine deve morire (e questa morte,
io potrò addirittura arrivare a nascondergliela). Per tutto il tempo che durerà
questo strano lutto, dovrò portare il peso di due infelicità fra loro
contrarie: soffrire per il fatto che l’altro sia presente (e che continui, suo
malgrado, a farmi del male) e affliggermi per il fatto che egli sia morto (se
non altro, che sia morto quello che io amavo). (87) […]
Qui, la perdita è doppia: non posso neppure investire la mia infelicità, come
quando soffrivo per il fatto di essere innamorato. Allora, io desideravo,
sognavo, lottavo; un bene prezioso era dinanzi a me, semplicemente ritardato,
il suo possesso era ostacolato da alcuni contrattempi. Adesso non c’è più
niente; tutto è calmo, e questo è peggio. Sebbene sia giustificato da
un’economia – l’immagine muore affinché io viva -, il lutto amoroso ha sempre
uno strascico: una frase viene ripetuta in continuazione: <<Che peccato!>>
(88)
L’ULTIMO
ABBRACCIO
“Era come se io avessi voluto stringere per
l’ultima volta, allo spasimo, qualcuno che stava per morire – che stavo per far
morire: il mio, era un rifiuto di separazione” (89)
L’ALLONTANENTO
– LO SVANIRE
“Il fading dell’altro, quando si manifesta, mi
angoscia perché mi sembra senza causa e senza fine. Come un triste miraggio,
l’altro s’allontana, insegue l’infinito e io mi logoro nell’attesa del suo
ritorno” (90)
ESSERE
LASCIATI COME UN RIFIUTO
“Il fading dell’oggetto amato è il terrificante
ritorno della Madre Cattiva, l’inspiegabile ritiro d’amore, la sensazione di
sentirsi abbandonati ben nota ai Mistici. Dio esiste, la Madre c’è, ma essi non amano più. Non sono distrutto, ma lasciato là, come un rifiuto” (90-91)
LA FESTA
“La Festa, è ciò che si aspetta. Quello che io
mi aspetto dalla presenza promessa, è una somma incredibile di piaceri, un
festino; esulto come il bambino che ride vedendo colei la cui sola presenza
annunzia e significa una totalità di soddisfazioni: io sto per avere davanti a
me, per me, <<la fonte di ogni bene>>. <<Vivo
giorni felici come quelli che Dio stesso tiene in serbo per i suoi beati; e
qualunque cosa mi succeda, non potrò certo dire di non aver goduto tutte le
gioie più pure della vita>> (Werther). (96)
LA GELOSIA
“Come geloso, io soffro quattro volte: perché
sono geloso, perché mi rimprovero d’esserlo, perché temo che la mia gelosia
finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro
di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti
gli altri” (98)
INCONOSCIBILITA’ DELL’ALTRO
“Io sono prigioniero di questa contraddizione:
da una parte, credo di conoscere l’altro meglio di chiunque e glielo dichiaro
trionfalmente (<<Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco
veramente!>>); e, dall’altra, sono spesso colpito da questa evidenza:
l’altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo,
risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi
esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai” (107)
LE TRE TAPPE DELL’ITINERARIO AMOROSO
“L’itinerario amoroso sembra allora seguire
tre tappe (o tre atti): prima, istantanea, c’è la cattura (io sono rapito da
un’immagine); dopo, c’è un susseguirsi d’incontri (appuntamenti, telefonate,
lettere, viaggetti), durante i quali <<esploro>> con trasporto la
perfezione dell’essere amato, ossia l’insperato adeguamento di un oggetto al
mio desiderio: è la dolcezza dell’inizio, il tempo dell’idillio. Questo periodo
felice assume la sua identità (la sua definizione) per il fatto che esso si
contrappone (se non altro nel ricordo) al <<seguito>>: il
<<seguito>> è la lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce,
sconforti, rancori, impacci e tranelli di cui divento preda e che mi porta a
vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe
contemporaneamente l’altro, me stesso e l’incontro che ci ha scoperti l’uno
all’altro” (109).
COSI’ NON PUO’ ANDARE AVANTI
“Così non
può andare avanti! – Eppure la cosa
va avanti, se non per sempre, almeno per molto tempo. La pazienza amorosa
prende dunque le mosse dal proprio disconoscimento: essa non scaturisce né da
un’attesa, né da una padronanza di sé, né da un bluff e nemmeno da un coraggio;
essa è un’infelicità che, in proporzione alla sua intensità, non si consuma; un
susseguirsi di scatti, la ripetizione (comica?) del gesto mediante il quale io
faccio presente a me stesso che ho deciso – coraggiosamente – di porre fine
alla ripetizione; la pazienza d’un’impazienza” (116)
MANIPOLARE
LA PROPRIA FERITA D’AMORE
“Nella loquela, niente viene a impedire il
rimuginamento. Nell’istante in cui, casualmente, prende corpo in me una frase
‘riuscita’ (nella quale io credo di scoprire l’esatta espressione di una
verità), questa frase diventa una formula che io ripeto in proporzione del
grado di acquietamento che essa mi dà (trovare la parola giusta rende
euforici); io la rimastico, me ne nutro; come i bambini o i dementi affetti da
merecismo, io inghiottisco e rigurgito continuamente la mia ferita d’amore. O
anche: spesso, il bambino autistico osserva le proprie dita che stanno
manipolando degli oggetti (ma egli non guarda gli oggetti): questo è il twiddling. Il twiddling non è un gioco; è una manipolazione rituale,
contrassegnata da un certo numero di aspetti stereotipati e compulsivi. La
stessa cosa avviene per l’innamorato in preda alla loquela: egli manipola la
sua ferita d’amore” (130)
NON RIUSCIRE
A CONCEPIRE CHE LE COSE SI EVOLVONO
“Io faccio sempre la stessa domanda (sarò
amato?) e questa domanda è alternativa: o
tutto o niente; non riesco a concepire che le cose si evolvano, che siano
sottratte all’opportunità del desiderio. Io non sono dialettico. Infatti, la
dialettica direbbe: la foglia non cadrà, e poi
cadrà; ma nel frattempo tu sarai cambiato e non ti porrai più la domanda. (Da
ogni persona a cui mi rivolgo per conoscere la sorte mi aspetto che dica: ‘La
persona che ami ti ama e te lo dirà stasera’). (132)
RENDERSI ODIOSI
L’amante non può sopportare che, di fronte
all’amato, altri siano superiori o pari a lui, e perciò si dà da fare per
sminuire i meriti dei suoi rivali; tiene l’amato lontano da altre compagnie;
comportandosi scaltramente in modo irriguardoso s’ingegna a tenerlo
nell’ignoranza, di modo che l’amato non abbia occhi che per lui; spera
segretamente che l’amato perda ciò che ha di più caro: padre, madre, parenti,
amici; non vuole che l’amato abbia una casa e dei bambini; la sua quotidiana
assiduità è uggiosa; non accetta di essere trascurato: vuole che l’amato sia
vicino a lui giorno e notte; anche se vecchio (il che è di per sé seccante), si
comporta come un tiranno e sorveglia sempre l’amato con occhio malignamente
sospettoso, mentre invece non impedisce a se stesso di essere poi infedele e
ingrato. Quale che sia il suo pensiero a questo proposito, il cuore
dell’innamorato è dunque pieno di cattivi sentimenti: il suo amore non è
generoso” (134)
LA STUPIDITÀ DELL’INNAMORATO
“L’innamorato delira […] ma il suo è un
delirio stupido. Cosa c’è di più stupido di un innamorato? Esso è così stupido
che nessuno osa tenere pubblicamente il suo discorso senza far ricorso a una
mediazione ponderata: romanzo, teatro o analisi (con beneficio d’inventario).
Il daimon di Socrate (quello che
parlava prima in lui) gli suggeriva: no.
Il mio daimon è, al contrario, la mia
stupidità: come l’asino nietzschiano, nella sfera del mio amore, io dico sì a
tutto. M’impunto, rifiuto l’apprendistato, ripeto gli stessi comportamenti; non
mi si può educare – e io stesso non posso farlo; il mio discorso è
continuamente irriflessivo; non so rigirarlo, suddividerlo, limarlo, disporvi
delle virgolette; parlo sempre col cuore in mano” (150)
SI È
COSCIENTI DELLA PROPRIA STUPIDITÀ MA NON LA SI CENSURA
“(La stupidità è l’essere sorpresi. L’innamorato lo è continuamente; esso non ha il tempo di trasformare,
di coprire, di proteggere. Forse è cosciente della sua stupidità, ma non la censura. O anche: la stupidità
agisce come una stortura, una perversione: è
stupido, – dice – e tuttavia… è vero). (150)
OSCENITÀ DELL’AMORE
“Niente può superare l’indecenza di un
soggetto che si accascia perché il suo altro ha assunto un’aria assente,
<<quando nel mondo ci sono ancora tanti uomini che muoiono di fame, tanti
popoli che lottano duramente per la loro liberazione, ecc.>> (150)
LA FOLLIA È
VICINISSIMA
“è proprio nello stato amoroso che certi
soggetti pieni di buonsenso intuiscono che la follia è lì davanti, possibile,
vicinissima: una follia che travolgerebbe l’amore stesso” (152)
SOLO CHI AMA
PUÒ TRADIRE
“La verità è che – paradosso
esorbitante – non smetto mai di credere di essere amato. Io allucino ciò che
desidero. Ogni dolore mi è dato più dal tradimento che non dal dubbio: infatti
solo chi crede di essere amato può essere geloso, e solo chi ama può tradire:
episodicamente, l’altro manca nei confronti della sua essenza, che è quella di
amarmi; ecco l’origine della mia infelicità. Ma un delirio esiste soltanto se
esso ci desta (i deliri sono solo retrospettivi): finalmente, un bel giorno,
capisco che cosa mi è accaduto: credevo di soffrire per il fatto di non essere
amato, mentre invece soffrivo perché credevo di esserlo; vivevo nell’imbroglio
di credermi contemporaneamente amato e abbandonato. Chiunque avesse ascoltato
il mio linguaggio interiore avrebbe potuto esclamare: ma che cos’è che vuole, in fin dei conti? (proprio come si dice di
un bambino difficile) (155).
LE LACRIME
Sottoposto all’Immaginario, l’innamorato non
si cura minimamente della censura che oggi tiene l’uomo adulto lontano dalle
lacrime e attraverso cui l’uomo intende affermare la sua virilità […] Dando
libero sfogo alle lacrime, l’innamorato rispetta gli ordini del corpo amoroso,
che è un corpo bagnato, in espansione liquida […] Chi dà all’innamorato il
diritto di piangere, se non un rovesciamento dei valori, di cui il corpo è il primo
a fare le spese? Egli accetta di ritrovare il corpo bambino”. (159)
LE LACRIME
PER FARE PRESSIONE
“Piangendo voglio impressionare qualcuno, fare
pressione su di lui (“Guarda che cosa hai fatto di me). Questo qualcuno
potrebbe essere – ed è quasi sempre – l’altro, che si vuole in questo modo
costringere ad assumere apertamente la sua commiserazione o la sua
insensibilità; ma potrei anche essere io stesso: mi faccio piangere per provare
a me stesso che il mio dolore non è un’illusione: le lacrime sono dei segni,
non delle espressioni. Attraverso le mie lacrime io racconto una storia, do
vita a un mito del dolore e da quel momento mi uniformo ad esso: posso vivere
con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore enfatico che riceve il
messaggio più <<vero>>: quello del mio corpo e non già quello della
mia lingua. <<Cosa sono mai le parole? Una lacrima sola dice assai di
più>>. (160-161)
IL MOMENTO
FELICE NON RITORNERÀ MAI PIÙ
“Quel momento felice non ritornerà mai più tale e quale. L’anamnesi mi appaga e mi
strazia”. (168)
IL RICORDO ANTIPROUSTIANO
“Questo teatro del tempo è l’esatto contrario
della ricerca del tempo perduto; infatti, io mi ricordo pateticamente,
puntualmente, e non filosoficamente, discorsivamente: mi ricordo per essere
infelice/felice – non per capire. Io non scrivo, non mi chiudo in una stanza
per scrivere lo sterminato romanzo del tempo ritrovato”. (169)
L’IMMAGINARIO È UNA COSA SERIA
L’Immaginario è in effetti una cosa seria
(niente a che vedere con la <<serietà>>: l’innamorato non ha la
coscienza a posto): il bambino che è nella luna (il lunare) non è giocatore; allo stesso modo, anch’io sono refrattario
al gioco: non solo il gioco rischia di sfiorare ogni momento uno dei miei punti
delicati, ma inoltre tutto ciò che diverte il mondo mi sembra sinistro; non mi
si può punzecchiare senza correre alcun rischio: mi offendo subito, sono
suscettibile? – Direi piuttosto che sono tenero, perforabile, come la fibra di
certi legni. (181-182)
NON POTER
PIÙ DARE LA PROVA DEL PROPRIO AMORE
“Freud alla sua fidanzata: ‘Mi fa soffrire
l’essere impotente a testimoniarti il mio amore’. E Gide: ‘Tutto nel suo
comportamento pareva dire: dato che non mi ama più, non m’importa più di
niente. Orbene, io l’amavo ancora, e anzi non l’avevo mai amata tanto; ma non
mi era più possibile dargliene la prova. E questa era la cosa più terribile”
(187)
LA RICERCA
DELLA STRUTTURA
“Che cosa ho da invidiare ai ‘sistemati’ che
mi circondano? Da cosa, vedendoli, sono escluso? Non certo da un ‘sogno’, da un
‘idillio’, da una ‘unione’. […] No, ciò che invidio nel sistema è una cosa
assai modesta (e tanto più paradossale in quanto essa non ha risonanza): molto
semplicemente, io voglio, io desidero una struttura.
[…] Certo, la struttura non dà la felicità; ma ogni struttura è abitabile, e questa è forse la sua
migliore definizione. Io posso benissimo abitare ciò che non mi rende felice;
posso lamentarmi e al tempo stesso continuare a restare dove sono; posso
rifiutare il senso della struttura che subisco e accettare senza troppo
soffrire certi suoi cascami di tutti i giorni (abitudini, minuti piaceri,
piccole sicurezze, cose sopportabili, tensioni passeggere); e di questa
continuità del sistema (che lo rende propriamente abitabile), io posso avere il
gusto perverso. (188-189)
IL SUICIDIO
D’AMORE
“Al benché minimo dolore, io ho voglia di
suicidarmi: quando lo si medita, il suicidio per amore non ha problemi di
motivazione, non fa preferenze. L’idea se n’è alleggerita: è un’idea facile,
semplice, una sorta di algebra sbrigativa di cui ho bisogno in quel preciso
momento del mio discorso; io non le do alcuna consistenza materiale, non penso
all’opprimente scenario, alle triviali conseguenze della morte: so a malapena come mi suiciderò”. (196)
L’AMICIZIA
STELLARE
“Eravamo amici e siamo diventati estranei. Ma
è giusto così e non vogliamo dissimularci e mettere in ombra questo come se
dovessimo vergognarcene. Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta
e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di
noi, come abbiamo fatto: allora i due bravi vascelli se ne stavano così
placidamente all’ancora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che
avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa
per tutti e due. Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro compito
ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro, in diversi mari e zone di sole e
forse non ci rivedremo mai – forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza
riconoscerci: i diversi mari e soli ci hanno mutati” (Nietzsche, La Gaia scienza 279). (200)
COME FINISCE
UN AMORE?
“Come finisce un amore? – Ma allora finisce!
Nessuno – salvo gli altri – lo sa mai; una specie d’innocenza nasconde la fine
di questa cosa concepita, propugnata e vissuta come eterna. Qualunque sia la
fine dell’oggetto amato, sia che esso scompaia o passi nella sfera dell’Amicizia,
io non lo vedo neanche svanire: l’amore
che è finito si allontana verso un altro mondo come un’astronave che cessa di
mandare segnali: l’essere amato che prima segnalava chiassosamente la sua
presenza, diventa tutt’a un tratto muto
(l’altro non scompare mai quando e come ci si aspetta)” (206)
L’OLANDESE VOLANTE
“L’Olandese maledetto è condannato a errare
sui mari fino a quando non avrà trovato una donna la cui fedeltà sia eterna”
(207)
L’AMORE NON
ACCIECA
“L’amore accieca: questo proverbio è falso. L’amore
spalanca gli occhi, rende chiaroveggenti: “Di te, su te, io posseggo tutto il
sapere”. Dice il sottoposto al padrone: tu
hai ogni potere su di me, ma io so tutto di te)”. (209)
VIA
D’USCITA: NESSUNA
“Tutte le soluzioni che riesco ad immaginare
sono interne al sistema amoroso: sia che si tratti di ritiro solitario, di
viaggio o di suicidio, è sempre l’innamorato che si isola, che se ne va o che
muore; se egli si vede isolato, partito o morto, ciò che vede è sempre un innamorato:
io ordino a me stesso di essere sempre innamorato e di non esserlo più. Questa
sorta di identità del problema e della sua soluzione definisce per l’appunto la
trappola: sono intrappolato perché
cambiare sistema è al di fuori della mia portata: sono <<fregato>>
due volte: prima, all’interno del mio proprio sistema, e poi perché non posso
sostituirlo con un altro. Questo doppio nodo definisce, a quanto pare, un certo
tipo di follia (la trappola si chiude quando l’infelicità è senza il suo contrario:
<<Perché infelicità vi sia, bisogna che il bene stesso faccia
male>>). Rompicapo: per <<uscirne>>, bisognerebbe che io
uscissi dal sistema – da cui voglio uscire, ecc. Se non fosse che è nella
<<natura>> del delirio amoroso il fatto di passare, di scemare da
solo, nessuno e niente potrebbe mai porvi
fine”. (212)
IL NON VOLER
PRENDERE
“E se il Nvp fosse una mossa tattica
(finalmente una!)? Se io volessi pur sempre (quantunque segretamente)
conquistare l’altro fingendo di rinunziare a lui? Se mi allontanassi per appropriarmene meglio? […]
(<<La mia forza sta nella mia debolezza>>). Questa mossa è uno
stratagemma, dal momento che si situa proprio all’interno della passione, di
cui lascia intatte le ossessioni e le angosce” (214).