JORGE AMADO,
Gabriella garofano e cannella,
trad. it. di
Giovanni Passeri, Einaudi, Torino 1989; titolo originale Gabriela
cravo e canela, 1958.
Una scrittura sobria e calda. Nessun autocompiacimento, nessuna leziosità. Uno sguardo realista, non di chi indaga con distacco, bensì di chi partecipa pienamente dell’umanità che descrive senza infingimenti. La rapacità, la violenza, la crudezza. La quotidianità laboriosa e oziosa, la politica. Sopra tutto, però, l’amore e i suoi carnali imperativi. Una sensualità vibrante che non conosce lascivia. Mai didascalico l’autore, mai moralista. Intersecando le vicende di un microcosmo ribollente di vita, costruisce la storia di uno sviluppo civile e di costumi e affida al lettore un messaggio progressista di emancipazione, senza dare lezioni a nessuno.
“Tempo felice, mesi di dolce vita, di carne soddisfatta, di golosità appagate, di cibi succulenti: anima lieta e letto di gioia. Fra le tante virtù di Gabriella, che Nacib elencava mentalmente durante l’ora della siesta, si contavano, oltre tutto, l’amore per il lavoro ed il senso di economia. Dove riusciva a trovare tempo e forza per lavare la biancheria, pulire la casa – non era mai stata così scintillante! – cucinare pranzo e cena per Nacib, preparare i piatti
per il bar? Senza dire, poi, che la notte era fresca e riposata, fremente di desiderio, non dandosi passivamente, ma prendendo da (228) lui, mai stanca, sonnolenta o sazia. Sembrava che leggesse nel pensiero di Nacib, preveniva le sue volontà, gli preparava sorprese: certi piatti complicati che tanto gli piacevano – minestra di gamberi, capretto ripieno – fiori freschi in un vaso accanto alla sua fotografia sulla mensoletta dell’ingresso, danaro spicciolo sempre pronto per le piccole spese, e per finire, quell’idea di andarlo ad aiutare al bar”. (229)
“Nel cacao c’è tanto miele,
quanti fiori alla campagna.
Dimmi un poco colonnello,
dimmi un poco per favore,
quando mai potrò dormire
dentro il letto del mia amore?
Fra gli alberi, lungo gli stretti sentieri, calpestando le foglie secche,
cresceva la voce degli uomini che raccoglievano:
Vado a cogliere cacao,
il cacao dalla sua pianta” (256)
“Quando spuntò l’aurora, e insieme il momento di andar via, prima che i mattinieri cominciassero a dirigersi verso i banchi del pesce, quando lei gli dette le labbra avide per gli ultimi baci della notte di fuoco e miele, le parlò dei piani: uscire sottobraccio, affrontando a viso aperto la società, andare ad abitare insieme nella stanzetta sul cinema Vittoria, in povertà ascetica, ma milionari d’amore… Una casa come quella non avrebbe potuto offrirgliela, né lusso, né cameriere, né gioielli, né profumi, non era fazendeiro di cacao. Modesto professore dal misero stipendio. Ma, amore… Glória non lasciò neppure che ultimasse proposte così romantiche:
–
No, caro mio, no. Così non può essere.
Voleva le due cose: amore e benessere. Josué e Coriolano. Conosceva bene il significato della miseria, il sapore amaro della povertà (312). Conosceva, anche, l’incostanza degli uomini. Bisognava agire con la massima segretezza, perché Coriolano non s’accorgesse di nulla, non fosse preso dalla diffidenza. Incontrarsi a notte alta, separarsi al mattino prestissimo. Senza più farsi vedere sotto la finestra, senza salutarla mai più. Così sarebbe stato anche meglio, aveva sapore di peccato, calore di mistero”. (313)
“Canto di un amico di Gabriella
Oh, cos’hai fatto, Sultano,
della mia allegra bambina?
Le ho dato una reggia,
trono prezioso
scarpe ricamate d’oro
smeraldi e rubini
anelli d’ametista
vestiti di diamante
gli schiavi per servirla
un posto nella mia tenda
l’ho chiamata regina.
Oh, cos’hai fatto, Sultano
della mia allegra bambina?
Lei voleva soltanto i campi
cogliere i fiori del bosco.
Lei voleva soltanto uno specchio
di vetro semplice, per ammirarsi.
Lei voleva soltanto il calore
del sole, per vivere lieta.
Lei voleva soltanto la luna
d’argento, per riposare.
Lei voleva soltanto l’amore
degli uomini, per godere l’amore.
Oh, cos’hai fatto, Sultano,
della mia allegra bambina?
L’ho portata al ballo dei re
la tua allegra bambina (333)
vestita regalmente,
frequentò dottori
parlò con principesse
ballò danze straniere
bevve vino prelibato
mangiò frutta d’Europa
stette fra braccia di re
unica vera regina.
Oh, cos’hai fatto, Sultano,
della mia allegra bambina?
Rimandala accanto ai fornelli
al suo cortile con alberi
alle sue danze marine
al suo vestito semplice
alle sue pantofole verdi
ai suoi innocenti pensieri
al suo spontaneo sorriso
alla sua infanzia perduta
ai suoi sospiri nel letto
alla sua ansia d’amare.
Perché la vuoi cambiare?
È la canzone di Gabriella
fatta di garofano
e cannella. (334)
“- Il dottore sarà eletto, è quasi sicuro.
–
Lascia che venga eletto. È un uomo di valore. È solo, che opposizione può fare?” (364)
“Quando Mundinho esponeva il suo programma, gli davano ragione in pieno.
–
Se non fossi impegnato con Aristóteles, il mio voto l’avrei dato a
lei. Il guaio è che erano tutti già impegnati con Aristóteles”. (365)
“Cosa pensi di me? Posso arrivare morto di stanchezza, ma per certe cose
sono sempre arzillo, non sono né vecchio né altro….
– Quando don Nacib mi fa un cenno col dito, non corro subito vicino a lui?
Quando mi accorgo che vuole…
– C’è qualche altra cosa, anche. Prima tu eri un fuoco, un vento furioso. Adesso sei la bonaccia, sei una mummia”. (397)
“L’illegalità è pericolosa e complessa. Richiede pazienza, sagacia, freddezza ed uno spirito in continuo allarme. Non è facile obbedire perfettamente
alle leggi che la governano e che esige” (461).
“E qui termina la storia di Nacib e Gabriella… ” (499)